Diario – un altro giorno, un altro tempo – COSTRETTI A MORIRE!
Il dolore è la misura più profondamente umana dell’ amore.
“L’umiltà e soltanto verità” Santa Maria Faustina Kovalska
“Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte” Kalil Gibran
Introduzione
Tu hai una figlia nel pieno della vita: trentatre anni, laureata, felicemente sposata, che sta partorendo in ospedale.
Uscirà il suo ginecologo dalla sala parto, che ti dirà che è stato un parto perfetto: “Un parto perfetto, un parto perfetto, un parto perfetto” ripeterà più volte, battendosi altrettante volte le mani sulla fronte, per finire col dirti che tuo nipote è nato morto. Dieci ore dopo morirà anche tua figlia, per la quale ti diranno che non si poteva fare niente, niente, perché non morisse, come costaterai che niente di ciò che si poteva e si doveva fare era stato fatto. Nell’immediatezza degli eventi, avrai solo delle vaghe sensazioni, che ti ripugneranno e ti sconcerteranano, ma non sarai in grado di stringere niente. Occorreranno quasi otto anni, perché tu possa, faticosamente, riconoscere e ricomporre tutti i pezzi del mosaico della morte di tuo nipote e di tua figlia, perché, finalmente, t’appaia, chiara e prepotente, la verità. All’inizio, percepirai una sensazione d’irrealtà, come uno sdoppiamento fra quello che vedi, tocchi e ti circonda e quello che senti, più o meno intensamente, dentro di te, sensazione che non ti abbandonerà più, completamente. Improvvisamente, dopo la morte di tuo nipote, vivrai l’agonia di tua figlia, tenendole la mano e ne vivrai la morte e nel dolore, che quasi ti annienta e che solo è nitido e reale, capirai che è cominciato, per sempre, un altro giorno, un altro tempo nel quale, dentro lo specchio, capirai come due esseri umani, nel momento decisivo della vita, sono stati -costretti- a morire.
diario
Da un po’ di tempo sentivo il desiderio di riabbracciare mia figlia, che stava per partorire, lo avrei fatto quel giovedì mattina, dopo la sua visita all’ospedale di Arezzo. Mia figlia, per la prima volta, aveva chiesto a mia moglie che voleva la accompagnassi io a quella visita. Rimasi leggermente meravigliato e sorpreso di questo, ma ne fui felice, perché mi ero sentito un po’ escluso dall’evento.
Quando ci ripenso affiora in me il dubbio che mia figlia lo abbia fatto per un inconscio timore premonitore di quello che, purtroppo, avvenne Inconsciamente, forse, la mia presenza la tranquillizzava e provo quasi un senso di colpa, per non averlo intuito allora. Durante quella visita mia figlia volle anche che guardassi nel grembo il suo bambino. Dopo la visita il ginecologo di mia figlia continuò a intrattenerci, spiegandoci che aveva stabilito di ricoverarla per il parto di domenica mattina, quella della settimana successiva, volendo recarsi prima negli Stati Uniti, per uno stage di aggiornamento e perché quella domenica lui sarebbe stato di turno il pomeriggio e se l’induzione al parto, cui aveva già deciso di ricorrere, avesse dato qualche problema, prima della fine del suo turno l’avrebbe fatta partorire lui, con il taglio cesareo. Il dottore le aveva detto: “Vedi Ingrid sei piccolina” mia figlia era alta un metro e cinquantasei. Le aveva detto ancora “Sei cresciuta di peso, hai il diabete, sei oltre la quarantesima settimana, è meglio non rischiare, non ti preoccupare, stai tranquilla nel pomeriggio ci sarò io e prima che finisca il turno, ti farò partorire”.
Mia figlia mi apparve tranquilla e anch’io, anche se avrei preferito sentirmi dire che avrebbe partorito bene per via naturale, così, per scrupolo, per non suscitare nemmeno l’ombra di una possibile apprensione in mia figlia, non la abbracciai, lo avrei fatto, pensai, con immensa gioia, dopo il parto. Finalmente, senza più alcun timore di turbare mia figlia, avrei potuto stringerla forte al mio cuore, in modo struggente pensai che le avrei dato un bacione e le avrei detto: ”Brava, brava mammina!”
So che mia figlia ne sarebbe stata felice ed io più di lei. Così non è stato, così non sarà mai! Quella domenica 12 gennaio 2003 fu mia moglie a svegliarmi, mi disse: “Alzati, è tardi, ha telefonato Gino, Ingrid sta partendo per l’ospedale” Gino era il marito di mia figlia. Dissi a mia moglie: “Potevi svegliarmi prima” quindi mi alzai rapidamente e dieci minuti dopo ci trovammo in macchina, diretti al San Donato di Arezzo. Durante il breve tragitto di circa sei chilometri, io e mia moglie non parlammo molto, fummo piuttosto protesi ad arrivare presto. Appena parcheggiata la macchina, nel piazzale antistante all’Ospedale, entrammo, prendemmo l’ascensore fino al primo piano e c’incamminammo lungo il corridoio che porta all’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia. Camminavamo appaiati e in silenzio, quando dissi a mia moglie: “Questa è una delle poche volte che entro volentieri in ospedale”.
Mia moglie mi guardò sorridendo, capì bene perché dicevo questo, la nascita di un nipote è di norma un lieto evento, ma l’ospedale è un luogo dove spesso ci si reca per visitare malati o per curarsi da patologie rischiose, com’era capitato a me nell’ultimo anno. Quando arrivammo al reparto maternità trovammo solo i genitori di Gino, da qualche minuto Ingrid, accompagnata dal marito, era entrata in sala parto, per iniziare l’induzione com’era stato programmato. La mattinata, per me, scivolò nell’attesa. Solo nel pomeriggio, per brevissimo tempo, entrai anch’io in sala parto con mia moglie a vedere mia figlia, che trovai accovacciata sul pavimento, ai piedi del letto. Perplesso guardai mia moglie, che cercò di spiegarmi che quella posizione avrebbe aiutato mia figlia per la dilatazione dell’utero, poiché ancora stentava a dilatarsi, così, mi parve di capire che le avrebbe detto l’ostetrica. In quei pochi momenti scambiai solo uno sguardo con mia figlia, poiché mia moglie mi pressò subito perché uscissi dalla stanza, essendo consentito in sala parto la presenza di un solo familiare, mentre eravamo già in tre, io, mia moglie e il marito di mia figlia, che già stava dentro.
Da allora i suoi occhi scuri e profondi li rivedrò una volta soltanto, casualmente, per un brevissimo istante, dopo il parto.
Era oramai l’una della notte di lunedì 13 gennaio 2003, attendevamo da circa diciotto ore che Ingrid partorisse, sapremo poi, dopo le ore 2,30, dal marito, che mia figlia partorì verso le ore 1,05, esattamente alle ore 1,06, così sta scritto nella cartella clinica di Ingrid, ma nessuno, nessuno venne mai a comunicarcelo. Alle ore 1,15 circa, pressato da mia moglie e dalla madre di Gino, entrai nel corridoio antistante alla sala parto, per cercare qualcuno cui chiedere notizie di mia figlia, quando da una stanza uscì un’operatrice. Subito le chiesi come stava Ingrid, l’infermiera mi rispose che aveva partorito ed era andato tutto bene, però non sapeva dirmi se era nato un maschio o una femmina, perché non aveva assistito al parto: “Non importa” le dissi, “so che è un maschio e come si chiama, me lo ha detto mia figlia da qualche tempo, grazie”. Tornai indietro felice e lo dissi a mia moglie e ai miei consuoceri, che erano in attesa nell’altro corridoio e che si rasserenarono.
Tranquilli stavamo attendendo che qualcuno uscisse a dircelo ufficialmente e che mio genero, che era con mia figlia, anche lui uscisse per dircelo. Era già quasi l’una e quaranta della notte, il tempo trascorreva lento e mia moglie cominciò a preoccuparsi di nuovo, perché, nonostante che tendessimo tutti le orecchie, non eravamo riusciti mai a cogliere il pianto di un bambino.
Ci eravamo perfino introdotti in altre stanze attigue la sala parto, per ascoltare meglio, ma niente, non percepimmo mai nessun pianto. Mia moglie cercò allora di entrare nel reparto dove si trovava mia figlia, ma non ebbe il tempo di farlo, qualcuno perentoriamente la buttò fuori, dicendole che andava tutto bene, chiudendo a chiave la porta che dava nel corridoio, dove noi stavamo ad attendere. Rimanemmo sconcertati ed incerti, quando, verso le due, dalla porta prima chiusa a chiave, vidi uscire la stessa operatrice che mi aveva detto che mio nipote era nato ed era andato tutto bene, la quale si tirò dietro la porta senza richiuderla a chiave, andando velocemente verso il reparto delle gestanti. Con mia moglie e gli altri ci guardammo un istante, poi dissi alla mamma di Gino: “E’ quella l’infermiera che mi ha detto che Ingrid ha partorito ed è andato tutto bene, vada a parlarci anche lei, lei può entrare nel reparto, è una donna, non le diranno niente, vada a parlarci”. La mamma di Gino guardò gli altri, che annuirono e si avviò verso il reparto dov’era entrata la donna. Trascorsero alcuni minuti quando tornò dicendoci: “Sì, l’ho vista, ci ho parlato, mi ha detto che è andato tutto bene, che Ingrid sta bene e che, forse, c’era qualche problema per il bambino perché hanno usato la ventosa quando era ancora troppo alto.” Ci guardammo preoccupati e perplessi, ma attendemmo ancora, sperando che qualcuno venisse a informarci meglio ma, non vedendo nessuno, impugnai con rabbia la maniglia ed entrai, spalancando la porta. Trovai un signore in camice bianco, alto, magro, al quale mi rivolsi in modo concitato, che mi rispose precipitosamente: “Non so dirle niente, non so dirle niente, ma aspetti gli mando subito il medico di sua figlia”, poi entrò in sala parto. Tornai allora verso la porta da dove ero entrato e affacciandomi nel corridoio, dove poco lontano attendevano mia moglie e i miei consuoceri, dissi loro: “Ora arriva qualcuno”. Poco dopo la porta da dove era entrato il signore in camice bianco, si riaprì e comparve il ginecologo di mia figlia che, vedendomi, si diresse subito verso di me, prendendo a battersi le mani sulla fronte a ogni passo ed esclamando a ogni passo: “Un parto perfetto! Un parto perfetto! Un parto perfetto!” Non riuscendo a capire bene il significato dei suoi gesti gli andai incontro e mettendogli una mano sulla spalla, lo scossi chiedendogli: “Ma dottore mi dice cosa vuol dire un parto perfetto?” “E’ nato morto” mi rispose, continuando a dire sempre: “Un parto perfetto, un parto perfetto, un parto perfetto”. “E’ nato morto?” Riecheggiai sorpreso, senza rendermi conto di quel ch’era avvenuto. “Sì” fu la conferma asciutta. Allora ritrassi la mano dalla spalla del dottore e preso l’orologio che tenevo al polso fra l’indice e il pollice della mano destra, gridai, mostrandogli l’ora sotto il naso: “E dopo un’ora e mezza me lo viene a dire e quell’imb… di mio genero nemmeno lui è venuto a dirci niente e mia figlia?” “Ancora non lo sanno” mi rispose. Non riuscivo a capire: “Come non lo sanno?” Chiesi sconcertato. “No, non gli e lo abbiamo detto, non sapevamo come fare a dirglielo” tentò di giustificarsi il dottore. Una volta ancora non capivo, ma gli dissi: “Chiami mio genero dottore, chiami mio genero gli e lo dico io, lo dico io a mia figlia, ma prima voglio vedere subito mio nipote ”. “Non è possibile, ci sono altri medici” mi rispose il dottore. Allora gli gridai con durezza: “Subito, lo voglio vedere subito, o entro da solo”. “Aspetti, aspetti avverto gli altri e lo faccio entrare” mi rispose, scomparendo dietro la porta da dove era venuto e da dove si riaffacciò, quasi immediatamente, facendomi cenno di entrare. Nella stanza vi erano diverse persone, mio nipote era adagiato sopra una piccola coperta ripiegata, posta sul piatto di una bilancia appoggiata sopra un tavolo, così parve a me in quel momento. Mi accostai a lui, somigliava a suo padre, lo benedissi tracciandogli il segno della croce sulla fronte con il pollice della mano destra, poi mi chinai strusciando la mia guancia contro la sua, era calda, morbida, sembrava che dormisse. Nel frattempo era entrato anche il padre di Gino, ci guardammo un istante, poi mi spostai, perché vedesse meglio Andrea. Intanto il dottore era uscito per chiamare Gino e sembrandomi che tardasse uscii anch’io, per cercarli. Li incontrai nel corridoio, dove mio genero mi disse che aveva appreso poco prima dal dottore che suo figlio era morto e mi confermò che anche Ingrid ancora non lo sapeva. Gli dissi che io avevo già visto Andrea, che anche lui doveva vederlo e pensando anche a mia figlia gli dissi: “Siete giovani, potrete avere altri figli, se vuoi, dopo possiamo dirlo insieme a Ingrid che suo figlio e morto ma, prima, lo devi vedere anche tu, è un bel bambino”. Non gli dissi era, per me Andrea è anche ora, è difficile da capire, impossibile da spiegare, si può solo sentire, ma Andrea è, per sempre. Spesso lo immagino cresciuto con i suoi cugini, Francesco, Luca e Marco, i figli di mio figlio, ha quasi l’età di Luca, infatti, Andrea è nato sei mesi dopo di lui. Intanto mia moglie e i miei consuoceri ci avevano raggiunto ed entrammo tutti in neonatologia. Ci stavamo disponendo intorno al corpicino senza vita di Andrea, quando mi sentii dare due colpetti con il gomito sul fianco, era il babbo di Gino, che mi diceva: “Ma non è quello”, riferendosi ad Andrea. Sì ora non sembrava più un bambino addormentato, come mi era parso prima, ora aveva le tempie scure, le labbra tumefatte, poteva anche non sembrare più lo stesso di prima e anch’io ne rimasi turbato. Nella stanza vi erano altri operatori in camice bianco, in particolare mi ricordo di un medico, una donna, che parlava animatamente a voce alta alle persone che le stavano di fronte e alle quale stava dicendo, in modo risentito: “ Ma signori non si rianima mica uno morto, io non certifico niente, io chiedo l’autopsia”. Al che il mio turbamento crebbe, allora rivolgendomi a mio genero gli dissi: “Gino andiamo a parlare con Ingrid” e insieme ci rivolgemmo al dottore, perché ci accompagnasse, poiché tergiversava, Gino ed io uscimmo dalla stanza, per andare da mia figlia. Stavamo per entrare da lei quando il dottor Merelli, ci raggiunse: “No, no, aspettate, aspettate, no, è sporca di sangue, devono finire di pulirla, non entrate” ci disse. In quel momento sopraggiunse un’infermiera, che apri la porta entrando, scorsi allora mia figlia di fronte in fondo alla stanza, seduta sul letto, appoggiata alla spalliera, vidi il suo volto assorto, i suoi occhi neri, che ben conoscevo, il suo sguardo malinconico e profondo, lei non si accorse di noi, perché la porta si richiuse subito rapidamente. “La devono pulire aspettate, aspettate” ripeteva il ginecologo, allora con Gino ci guardammo e non insistemmo più per entrare, pensai che se mia figlia avesse conosciuto tutto più tardi non sarebbe cambiato niente: “Va bene, ci chiami dopo che l’hanno pulita”, dissi al dottore e tornammo fuori nel corridoio, in attesa che ci chiamassero.
Nessuno ci chiamò mai. Quello è stato per me l’ultimo sguardo di mia figlia, l’ultimo momento vero di vita che ho percepito di lei, da allora ne vivrò solo l’agonia e la morte.
Quello sguardo, i suoi occhi li vedrò per sempre, come per sempre ricorderò gli eventi di quella notte e di quel giorno.
II
Nel corridoio l’attesa era pesante, nessuno veniva a chiamarci, né a informarci sullo stato di mia figlia, alla fine entrai nel corridoio del reparto, sperando d’incontrare qualcuno cui chiedere qualcosa. M’imbattei di nuovo nel signore alto e magro, in camice bianco, che avevo incontrato quando ero entrato, per avere notizie di mio nipote, il quale appena mi vide, senza lasciarmi il tempo di parlare, mi disse: “Attenda, attenda fuori, le mando subito il ginecologo di sua figlia”. Qualche istante dopo nel corridoio si presentò il dottor Merelli, al quale chiesi: “Ma dottore, quando posso parlare con mia figlia?” Mi apparve imbarazzato e quando mi rispose, non riuscii a capire quello che mi disse, per cui insistetti per vedere mia figlia, allora mi disse chiaramente che non era possibile, perché stava male. Non avendo idea di cosa si trattasse gli chiesi cos’avesse, mi rispose: “Ha la glicemia alta, stiamo cercando di abbassargliela.” Soffrendo anch’io di diabete, cercai di capire meglio e chiesi al dottore quanto fosse alta la glicemia di mia figlia: “Cinquecento cinque” mi rispose. Esclamai sorpreso: “Come se ieri l’aveva appena a ottanta, cosa ha mangiato, cosa le avete dato, non ha quasi preso niente da quando è entrata in ospedale”, dissi ingenuamente. Il dottore questa volta, visibilmente imbarazzato, mi disse: “Le hanno fatto una flebo di glucosio, perché aveva la pressione bassa”. Questo mi fece arrabbiare di più e gli gridai: “Ma come, soffre di diabete e le fate una flebo di glucosio?” In quel momento nel corridoio stava venendo la dottoressa Cianfrini, ancora non conoscevo il suo nome ma l’avevo vista quando Gino ed io eravamo entrati in neonatologia a vedere il corpicino di mio nipote, così le andai incontro e prendendola per le braccia, stringendola leggermente le chiesi con tono concitato: “Ma si può fare una flebo di glucosio a una che ha il diabete?” La dottoressa si ritrasse un po’ leggermente spaventata ed esclamò: “No!” Poi continuò dicendomi: “Ma io non c’entro niente con sua figlia, confermo quello che ho già detto per suo nipote, io non firmo niente, io chiedo l’autopsia”. Le lasciai le braccia, facendole un cenno con il capo e mi girai, tornando preoccupato da Merelli, che in quel momento stava parlando con Gino e gli altri. Li interruppi e pacatamente dissi al dottore: “Dobbiamo portare mia figlia, a Siena, a Firenze, da qualche parte, non so, devo chiamare qualcuno?” Mi rispose: “No, bisogna attendere”. Lo guardai un attimo, poi annuii ed egli rientrò in sala parto. Da un po’ stavamo attendendo nel corridoio l’evolversi degli eventi, senza altre notizie, quando vidi arrivare un cardiologo che conoscevo di vista e che entrò in sala parto, la cosa non mi piacque e attesi con apprensione che uscisse. Non tardò molto, ma quando uscì, vedendomi cercò di evitarmi andandosene velocemente, tanto che non riuscivo a parlargli, allora lo rincorsi e lo fermai afferrandolo per un braccio e gli chiesi se avesse visitato mia figlia: una signora che aveva partorito qualche ora prima, precisai. Mi rispose che non sapeva se era mia figlia, ma aveva visitato una signora che aveva partorito, era stato chiamato, perché la signora aveva avuto un problema cardiaco, che ora aveva superato, per questo se ne stava andando e non sapeva cos’altro dirmi. Le parole del dottore, anche se al momento mi sollevarono, non allentarono la mia preoccupazione, lo salutai e quando stavo per tornare verso i miei, vidi entrare in fondo al corridoio mio figlio con sua moglie. Lo avevo chiamato al telefono quasi mezz’ora prima, per dirgli della morte del bambino e di venire subito all’ospedale. Andai verso di loro e gli dissi quello che stava succedendo, ma al perché il figlio di Ingrid era morto e perché Ingrid stava male e cosa aveva, di là dal dato della glicemia, non potei dir loro niente, perché non sapevo niente, non mi era stato detto niente, niente di niente, mai.
Così rimanemmo tutti in attesa, provando a fare qualche congettura, ma ci rendemmo conto che, di fatto, non potevamo congetturare nulla, nessuno di noi sapeva e conosceva niente, avevamo solo il nostro personale vissuto, le nostre personali impressioni e dopo un po’ non mi restò che cercare ancora il dottor Merelli e, ancora una volta, qualcuno mi pregò di attenderlo fuori dal corridoio della sala parto e di neonatologia, nel corridoio antistante al reparto di degenza delle partorienti. Qualche minuto dopo uscì il dott. Merelli, vedendomi si rigirò a richiudere la porta da dove era uscito, poi, venendomi incontro, cominciò a parlarmi con una terminologia il cui significato mi sfuggiva, allora lo fermai e gli dissi: “Ora basta con il medichese dottore, ora voglio capire cosa avviene, cosa state facendo”. Il dottore si tacque e, dopo un attimo d’incertezza, mi rispose: “Allora non posso dirglielo io, è meglio che gli e lo dica la dottoressa della rianimazione” e tornato dentro, ricomparve con la dottoressa Cascianini, che vedevo per la prima volta. Mi avvicinai per parlarle, ma prima che parlassi io, mi precedette dicendomi: “ Sua figlia è in coma vigile”, cominciando a spiegarmi a voce alta, cos’era il coma vigile, forse, preoccupata di qualche mia reazione. Appresi così, apprendemmo così dell’estrema gravità in cui oramai versava nostra figlia e che qualcosa d’irreparabile era avvenuto. Allora, temendo per mia moglie che stava poco dietro di me e che non volevo spaventare più di quanto già non lo fosse, rimasi ad ascoltare la dottoressa in silenzio, apparentemente calmo, quasi impassibile. “Sì, più o meno so cos’è il coma vigile”, le risposi. La dottoressa continuò: “L’abbiamo intubata, ora dobbiamo portarla in rianimazione, perché quello che dobbiamo farle non possiamo farlo qui, passeremo nel corridoio con sua figlia, la vedrete, ma non potrete parlarle, ha gli occhi chiusi, dorme e non vi sentirebbe”. Questa precisazione tradiva la sua preoccupazione per un nostro comportamento incontrollato alla vista di mia figlia, allora con la stessa calma di prima e un tono naturale, la rassicurai, dicendole che nessuno si sarebbe mosso e avrebbero potuto passare con mia figlia in mezzo a noi, indisturbati, poi rimanemmo in silenzio, attendendo che mia figlia uscisse. A quel punto il dottor Merelli e la dottoressa Cascianini rientrarono in sala parto a prendere mia figlia e portarla in Rianimazione, mentre noi ci disponevamo ai lati del corridoio. Al mio fianco venne mia moglie, che strinsi sulle spalle. In alto sulla parete, in cima al corridoio, l’orologio tondo segnava quasi le cinque e venti del mattino. Poco dopo comparve il carrello con mia figlia, spinto dal personale sanitario verso l’ascensore, per trasportarla in Rianimazione, fra gli altri che accompagnavano mia figlia, vidi anche il dottor Merelli. Il carrello veniva con la testa di mia figlia in avanti, vedemmo qundi prima i suoi capelli scuri, poi il suo volto completamente immobile, cercai i suoi occhi, il suo sguardo, quello che avevo visto oltre due ore prima, quando dovevo andare a dirle con Gino della morte di suo figlio, ma trovai solo le sue palpebre chiuse, come mi aveva detto la dottoressa, saperlo e vederlo non è però la stessa cosa. Strinsi forte mia moglie e rimanemmo in silenzio, poi muovemmo dietro di loro fino all’ascensore, dove entrò solo mia figlia con il personale dell’ospedale, mentre noi scendemmo per le scale. Quando arrivammo in Rianimazione, erano quasi le sei, mia figlia era già dentro da qualche minuto e trovammo solo il dottor Merelli ad aspettarci. Ci disse che non potevamo entrare, che sarebbe entrato lui più tardi e che sarebbe venuto lui a informarci.
Il dottore rimase con noi nel corridoio per tre quarti d’ora, parlando spesso con Gino, mio figlio e mia nuora, con i quali già si conoscevano, solo a tratti interloquiva anche mia moglie, i miei consuoceri ed io, finché il dottore entrò anche lui in Rianimazione e l’attesa si fece più stringente. Erano quasi le otto del mattino, ancora il dottore non tornava, inconsciamente finimmo tutti col trovarci di fronte alla porta della Rianimazione, finché lo aprimmo ed entrammo, ma non vedemmo nessuno. Poco oltre l’ingresso c’erano solo dei paraventi che nascondevano la sala, feci allora alcuni passi e guardai oltre, ma nella sala c’erano disseminati altri paraventi, tra questi riuscii a scorgere solo un lettino con una paziente, che però non era mia figlia e due persone in camice bianco, che le stavano intorno e mi guardarono sorprese, disorientato, tornai indietro dagli altri, che erano già tornati nel corridoio. Finalmente, seguito dalla dottoressa Cascianini, ricomparve il dottor Merelli, che prese a parlare calmo, dopo alcune parole mi parve che mia moglie e Gino traessero segni di speranza, a me cosi non parve e temendo che si sarebbero generati equivoci fra noi, chiesi alla dottoressa di farci capire meglio. La dottoressa prese allora a elencarci i dati degli esami di mia figlia, come se noi avessimo potuto comprenderne appieno il significato e quando l’ambiguità della situazione, purtroppo, mi parve chiarirsi udendo la dottoressa dire: “ l’emoglobina è al cinque per cento” la interruppi. L’emoglobina al cinque per cento? Le chiesi Ingrid ha l’emoglobina al cinque per cento? La dottoressa, alzando gli occhi dal foglio che teneva in mano, incrociando il mio sguardo: ”Si” confermò ”rimanendo in silenzio”.
Il dubbio è un processo paralizzante, che alimenta l’illusione e la speranza, la certezza, un’intuizione folgorante. Stingendo i pugni mi voltai di scatto verso mia moglie e le gridai: “Nina, Ingrid è morta!” Così da sempre chiamo mia moglie, anche se all’anagrafe si chiama Silvia, la chiamavo così, perché quando la conobbi, si presentò con il nome di Nerina, quello con il quale la chiamava sua madre e che mi piacque abbreviare in quello di Nina. La chiamavo così oramai da trentasei anni, da quando l’avevo conosciuta in una bella giornata d’aprile e sposata in un giorno di settembre, dello stesso anno. Mia moglie mi si rivoltò come una belva ferita, cercando di graffiarmi il viso, la fermai prendendole le braccia, mentre prorompeva in pianto, mio figlio e Gino, la sorressero.
Allora mi rigirai verso la dottoressa e il dottor Merelli e scandendo le parole, perché capissero, gli dissi: “Io sono cattolico apostolico romano e voglio che mia figlia abbia l’estrema unzione, chiamate un prete, se no lo chiamo io e non mi fate bisticciare più con mia moglie”. La dottoressa mi guardò e guardò anche mia moglie, che nel frattempo si era riavvicinata e disse: “Si signora, suo marito ha ragione”. Poi continuò: “Se conoscete un prete, chiamatelo voi, perché se lo chiamiamo noi, passerà più tempo prima che arrivi”. A quel punto mia moglie ebbe l’intima e inequivocabile conferma di quello che le avevo detto prima e ricominciò a piangere, chiedendosi perché Dio facesse tutto questo: ”No, no, Dio non c’entra niente, Dio non è un burattinaio che tira i fili e li taglia, i fili li hanno tirati gli uomini” le gridai scuotendola. Brevemente dissi altre cose a mia moglie, poi, guardando i medici, dissi loro: “Il prete lo chiamiamo noi” e i due medici, in silenzio tornarono in rianimazione. Rimasti soli con mio figlio e Gino decidemmo di chiamare subito don Sergio e dirgli che Ingrid stava morendo e volevamo che venisse subito a darle l’estrema unzione. Don Sergio era il sacerdote della Comunità di Pomaio di Arezzo, di cui i miei figli facevano parte, fin dai tempi delle scuole superiori, li aveva sposati e sarebbe venuto certamente.
Infatti, mentre ancora stava parlando al telefono, mio figlio mi disse che don Sergio sarebbe arrivato subito, i minuti necessari per raggiungere l’Ospedale. Dissi ancora a mio figlio: “Digli che lo attendi fuori e quando arriva, portalo qui, io vado a dirlo in rianimazione che don Sergio sta arrivando”. In rianimazione mi pregarono di non entrare tutti con il prete, uscendo lo dissi agli altri, che annuirono e un minuto dopo l’arrivo di don Sergio, con lui entrammo solo io, Gino e mio figlio.Ingrid giaceva immobile, le braccia nude, adagiate sopra la coperta, stese lungo i fianchi, portavano i segni delle flebo, di lei si percepiva appena la respirazione dai movimenti del petto, intorno c’erano le attrezzature elettroniche con le spie accese e due persone della rianimazione che, accorgendosi di noi, si ritirarono. Don Sergio si mise di fronte a me, alla destra di Ingrid, aveva già indossato la stola, vidi mio figlio, poco dietro di lui e ancora don Sergio, che si face il segno della croce, iniziando la cerimonia. Cercai di parteciparvi, ma non ebbi più la certezza che tutto fosse reale. Forse è così che si reagisce in circostanze d’intensa emotività e di dolore, perché un non crollo e, in qualche modo, riesca a rimanere sufficientemente vigile e presente e per qualche verso, distaccato dagli eventi, come se avvenissero in una dimensione parallela.
Questa sensazione da allora rimarrà come latente e a volte la percepisco anche ora, ora so, che non è irreale, ma un reale più reale, se si può dire, come se la percezione interiore e la comprensione razionale degli eventi, avvenissero su due piani differenti, che comunque si compenetra e si sostengono, senza annullarsi mai. Erano quasi le nove e trenta del mattino, quando, finito il rito dell’estrema unzione, ringraziai e salutai don Sergio, che rimase con mio figlio e gli altri, mentre io uscii per telefonare allo studio di Paolo. Paolo era l’avvocato cui mi legavano anni di collaborazione per i miei trascorsi di sindacalista. Cercai subito di spiegargli quello che era successo e succedeva, dovetti farlo più volte e in vario modo, perché cominciasse a capirmi.
Dal tono della voce, che mi arrivò dal telefono, mi parve di percepire timore e scetticismo per quello che dicevo, derivanti, forse, dalla molteplicità degli eventi che cercavo di spiegare e di rappresentargli e dalla loro enormità. Così mi resi conto, che sarebbe stato difficile spiegarli e rappresentarli a chiunque, infatti, così è avvenuto. Ho cercato di spiegare i fatti, di solito, presentandoli come con la moviola, cioè cercando di tornare da un quadro a un altro, purtroppo però, non basta cercare di fermare qualche fotogramma dei tanti necessari, per chiarire una verità complessa e ostacolata e offuscata, dissi allora all’avvocato: “Scusami Paolo spiegami come posso fare, perché intervenga subito la procura”. Capii che dovevo presentare una denuncia, meglio se direttamente in Procura, potevo provare, però, a presentarla anche al posto di Polizia, presso il Pronto Soccorso dell’ospedale, che si trovava, mi disse Paolo, vicino alla Rianimazione. Cercai di farlo, ma al posto di polizia del Pronto Soccorso non c’era nessuno e quando trovai l’incaricato, mi fu quasi impossibile fargli capire quel che succedeva, in fondo io ero solo una persona che improvvisamente gli stava raccontando una storia, che coinvolgeva dei medici e l’Ospedale e nemmeno con mio figlio, che in quel momento mi aveva raggiunto, riuscimmo a venire a capo di qualcosa. Il timore che il poliziotto aveva di trovarsi in difficoltà con i superiori, i medici e l’Ospedale, era evidente e prevalente. Erano già quasi le dieci quando con mio figlio tornammo in Rianimazione, dove ritrovai tutti i miei e mi accorsi che con Ingrid non era rimasto nessuno. Lo feci presente e mi fu risposto che era stato detto loro, che per nessuna ragione si poteva rimanere in rianimazione: “Io vado dentro ” dissi ed entrai. Mi vennero incontro la dottoressa Cascianini, con un’altra signora in camice bianco, che non conoscevo, dicendomi, infatti, che nessuno poteva rimanere in rianimazione. Le guardai dicendo loro: “No, io non lascio più sola mia figlia, potete metterla in un’altra stanza, nel corridoio, dove volete, non importa, per me va bene lo stesso, io non la lascio più sola, mia figlia non muore da sola, io rimango con lei”. Allora le due interlocutrici, allontanatesi un poco, parlarono brevemente fra loro, poi la dottoressa tornò verso di me e mi disse: “Va bene, venga” e mi accompagnò da mia figlia. Il quadro era quello di prima, la dottoressa, indicandomi una sedia, mi disse: ” Se vuole, può sedersi qui” annuii e lei si allontanò.
Accostai allora la sedia al letto di mia figlia e mi sedetti, prendendole il braccio fra le mani e piangendo in silenzio, cominciai a pregare mentalmente, recitando quel che allora conoscevo della Coroncina della Divina Misericordia. La fede sorregge, ma non allevia il dolore, né elimina le pulsioni e i sentimenti dell’animo umano, le sue contraddizioni, le sue debolezze.
Mi trovavo così quando una voce di donna mi parve mi chiamasse. La voce mi arrivò come lontana, quasi fuori campo e continuai a piangere in silenzio e a pregare, attaccato al braccio di mia figlia, finché mi sentii scuotere la spalla e alzando la testa mi girai. All’altro lato del letto vidi una signora bionda, che chinatasi verso di me, mi disse: “Io devo dirgli una cosa”. La fissai un istante e rigirandomi verso mia figlia, che agonizzava, le dissi: ”Sì un bel macello avete fatto”. Mi sentii toccare di nuovo e dire con più decisione: “Io devo dirgli una cosa”.
Mentre mi giravo ancora per guardarla, mi specificò: “Io non certifico la morte di sua figlia, io chiedo l’autopsia”. Accennando anche a parti precedenti, che io non conoscevo, mi parlò della morte di altri bimbi e letteralmente mi disse: “Mi sono mancate due ore per intervenire su di lei”. Parole presso che simili le avevo già sentite quella notte, sette ore prima, quando la dottoressa Cianfrini, da me fermata nel reparto maternità, per chiederle se si poteva fare una flebo di glucosio a mia figlia, sofferente di diabete, mi rispose: “No, ma io non c’entro niente con sua figlia e confermo quello che ho detto per suo nipote, io non firmo niente, io ho chiesto l’autopsia”. La dottoressa della rianimazione questo non lo sapeva e passò a spiegarmi che ora mia figlia era come morta e solo le macchine le consentivano ancora di apparire in vita, poi, senza aggiungere altro, se ne andò e capii. Allora mi alzai in piedi, attesi alcuni minuti, guardando intensamente mia figlia che, immobile ed esangue, ancora, debolmente, respira e chiusi gli occhi in preda ai sentimenti e al dolore, nella mente mi balenò l’immagine di Cristo, straziato, trafitto, morto crocefisso e percepii, ebbi coscienza, di come anche Ingrid e Andrea gli somigliavano tanto e con tutto il cuore e la mente, in un lunghissimo istante, li affidai alla sua misericordia e girandomi, senza più guardare mia figlia, scappai. Nella Cartella Clinica di Ingrid sarà scritto, che il decesso avvenne alle ore 11,15. Qualche minuto dopo, che io la lasciassi. Sul corridoio trovai i miei che attendevano, guardando mia moglie le dissi: “E’ morta”, “Lo so” mi rispose, vedendomi tutti lo sapevano, sapevano che quando fossi ricomparso Ingrid non ci sarebbe stata più. Abbracciai mia moglie, non senza timore che crollasse e cercai di reagire e di distrarla, così le dissi, senza lasciarle il tempo di parlare: “Ti lascio con Egon e i genitori di Gino, io e lui dobbiamo andare subito dall’avvocato e in Procura”.
Rivolgendomi poi a mio figlio gli dissi: “Rimani con la mamma e i genitori di Gino, io e lui andiamo a fare la denuncia, se hai bisogno chiamaci al telefono”. Gino, era già pronto e uscimmo per andare da Paolo. Non restammo molto dall’avvocato, che c’indirizzò subito in Procura, dove ci recammo a piedi, essendo poco lontana dallo studio legale Arrivati in procura, ci fecero accomodare in una stanza, dove poco dopo ci raggiunse qualcuno, che, avuta qualche spiegazione ci procurò dei fogli aiutandoci anche a compilare la denuncia. Al momento di consegnarla al funzionario, mentre mi accingevo a firmarla per primo, questi mi fermo e spinse Gino a firmarla lui, istintivamente fui sul punto di reagire, intuendo che non lo faceva per aiutarci, ma mi trattenni, lasciando che mio genero firmasse, per non rischiare nemmeno improbabili ombre fra noi. L’effetto di questo fu che io non ebbi mai dalla procura nessuna comunicazione, né fui mai ascoltato.
Avrei potuto esserlo, ma avrei dovuto chiederlo esplicitamente, con il rischio di generare malintesi con mio genero, così preferii non farlo. Non so se questo avrebbe evitato la prima archiviazione per mia figlia e modificato minimamente lo sbocco dei procedimenti, sicuramente a me non ha giovato e mi ha creato difficoltà ed è uno dei tanti segni che ho percepito, di comportamenti maliziosamente orientati. Non sempre è così, ma a volte e non sono poche, lo è talmente che tali comportamenti condizionano anche pesantemente la Giustizia, tracciandole, forse suo malgrado, degli sbocchi obbligati, così come sperimenterò, purtroppo anche nello stesso procedimento giudiziario per la morte di mio nipote. Firmata e consegnata la denunzia, Gino ed io raggiungemmo la macchina che avevamo lasciato nei pressi dello studio dell’avvocato e tornammo all’Ospedale. In rianimazione non era rimasto nessuno, mia figlia era stata già portata all’obitorio, che raggiungemmo a piedi, trovandosi, poco lontano, al piano terra dell’ospedale. Mia moglie quando mi vide mi venne incontro e mi abbracciò, poi, piangendo: “E’ là” mi disse, con un filo di voce, indicando il fondo del corridoio, dove era l’obitorio. Gino intanto era andato avanti e si era fermato dai suoi genitori, che erano insieme a mia nuora e mio figlio e poco dopo lo vidi andare verso l’obitorio. Allora dissi a mia moglie: “Tu rimani con loro, appena esce Gino, vado anch’io a vedere Ingrid”. Mia moglie fece si con la testa e dopo un po’, c’incamminammo lentamente verso di loro.
Appena li raggiungemmo: “La denuncia è fatta” gli dissi, ma lo sapevano. Intanto Gino stava tornando, attesi che ci raggiungesse, poi ripetei a mia moglie: “Rimani qui con loro” e mi diressi verso l’obitorio, che rimaneva appena dietro l’angolo, in fondo al corridoio. Giunto davanti alla porta dell’obitorio mi fermai alcuni attimi esitando, tanti pensieri mi venivano alla mente, anche quello di cosa sarebbe potuto succedere a mia moglie, se, nel vedere mia figlia, io mi fossi sentito male, nove mesi prima avevo avuto un infarto e da poco mi stavo rimettendo. Respirai profondamente e impugnata la maniglia, la girai, entrando. La stanza era nuda. Quasi al centro, coperto dalla porta aperta, dietro il muro della stanza, che faceva angolo con l’ingresso, spuntava poco più della metà del tavolo di marmo dell’obitorio, parzialmente coperto da un lenzuolo, sotto il quale intuivo il corpo di mia figlia e avvertii la stessa sensazione che avevo provato in rianimazione al momento che le fu impartita l’estrema unzione, allora automaticamente andai verso il fondo del tavolo e, quando toccai la mano sul marmo freddo, mi girai. Vidi mia figlia davanti a me, distesa sopra il marmo, coperta da un lenzuolo bianco fino al petto, rimasi immobile, l’immagine fredda che vedevo, mi sembrò quasi irreale, come provenisse da un’altra dimensione, il dolore invece no, lo sentivo dentro di me, nel mio essere, nitido e profondo. Sì, può apparire quasi surreale il vissuto di un grande dolore, cosi rimasi immobile, soffrendo e amando, non so se più amando che soffrendo.
Il dolore è la misura più profondamente umana dell’amore: dolore e amore, impossibili da separare. L’ho riconstatato quando per arrivare a ricomporre la verità, ho dovuto ricordare, approfondire e rivivere, più volte, ogni evento della morte di mia figlia e ogni volta, se pur con differenti intensità, ho riprovato e riprovo la stessa sensazione. Quando tornai nel corridoio, insieme con gli altri e a mia moglie trovai anche alcuni suoi colleghi di lavoro, la notizia della tragedia si era sparsa in tutta la città e oltre e molte persone che ci conoscevano stavano arrivando. Già dopo qualche ora nel corridoio dell’obitorio ci ritrovammo in molti, anche, perché nelle varie stanze mortuarie adiacenti vi erano altre salme composte in attesa del funerale, quello di Ingrid e Andrea non sapevamo quando avremmo potuto farlo, poiché le loro salme sarebbero state messe in cella frigorifera in attesa dell’autopsia. Fu durante uno dei momenti di maggior afflusso di visitatori che una dottoressa venne a chiederci se avremmo acconsentito al prelievo delle cornee di Ingrid, mi ricordo che la dottoressa ci disse che nell’eventualità di un nostro assenso le avrebbero prelevate subito, perché altrimenti c’era il rischio che non sarebbero state più utilizzabili per il trapianto: “Sì, mia figlia era una donatrice”, confermai alla dottoressa e andammo con lei per firmare il consenso. Ingrid non poté donare che le sue cornee, l’autopsia non consentiva altro, comunque, per com’era ridotta e così per Andrea, forse, non sarebbero state possibili comunque altre donazioni d’organi. Nel pomeriggio venne il cappellano dell’ospedale a intrattenersi con noi, cercò come poteva di sostenerci e così fece nei giorni successivi, anche la sua presenza ci aiutò, come quella di tante altre persone. L’afflusso di parenti e amici continuò per tutto il pomeriggio, fino all’ora di chiusura dell’obitorio e continuò per i due giorni successivi in cui Ingrid rimase esposta, prima di essere collocata nella cella frigorifera. Durante l’orario di apertura mia moglie rimase quasi costantemente all’obitorio e solo per il pranzo riuscivo a farla tornare a casa. Il giorno successivo la morte di Ingrid e Andrea, con Gino e mio figlio, cercammo di orientarci su cosa avremmo dovuto fare e decidemmo di ritrovarci …
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